Le
testimonianze
che riguardano l’allevamento del maiale, la sua
macellazione e il consumo dei suoi derivati ci dicono
quanto questo
animale fosse importante nel contesto alimentare del
mondo contadino.
In particolare era durante l'operazione di macellazione
che si
esprimeva la conoscenza pressoché totale della bestia:
le sue parti
venivano nominate e distinte, accuratamente separate e
utilizzate con
scopi diversi.
Per macellare la bestia si chiamava solitamente un
“esperto”, il masù
(masè o masulàr) ma tutti
(la famiglia e in alcuni casi anche i
vicini) collaboravano alla lavatura/pulitura e al
confezionamento degli
insaccati.
Il maiale si macellava in gennaio o comunque nei mesi
invernali, quando
diminuiva l’impegno nei lavori agricoli e il freddo
rendeva possibile
conservare le carni; infatti la scomposizione
dell'animale aveva in
primo luogo lo scopo di dividere ciò che poteva essere
preservato per
più tempo (gli insaccati o salumi, che, come dice la
parola stessa,
venivano trattati col sale) da ciò che andava consumato
subito.
Per questo motivo il giorno dell'uccisione e quelli
successivi erano
una festa: la grande disponibilità di cibi “buoni”,
ovvero nutrienti,
decretava la sospensione della scarsità quotidiana.
Il
giorno
che si uccideva il maiale era una festa, ma
anche i giorni dopo!
[…] prima facevamo festa a Natale e poi era
festa ancora perché c'era
lì tutta la roba del maiale (Eugenia, 1926, S.
Stefano Ticino)
La primissima parte della bestia ad essere utilizzata
era il sangue
ottenuto dallo sgozzamento, che andava mescolato perché
non si
coagulasse e poteva essere subito unito alle verze
oppure al
pangrattato per preparare una torta
di sangue.
Col
sangue del maiale facevamo una torta di
sangue. Col pane, facevano il
pane grattugiato, ma anche se andavano dentro
i pezzi più grossi non
era un problema... con un contenitore
prendevano il sangue del maiale
quando lo scannavano e poi facevano la torta e
la mangiavamo. Col pane
grattugiato, un misto... facevano cuocere un
momento, ma non era
neanche troppo cotta! (Eugenia, 1926, S.
Stefano Ticino)
In alternativa il sangue veniva aggiunto alla pasta dei
sanguinacci (masapàn).
Infatti, mentre le due mezzene, i due tagli con cui il
corpo della
bestia veniva divisa a metà, rimanevano appese
all'aperto in modo che
la temperatura le asciugasse e raffreddasse, le
interiora venivano
estratte perché destinate agli insaccati e alla
lavorazione.
Si
apriva a metà, lo lasciavano fuori perché
facevano una specie di croce
e lo appendevano, appoggiavano al muro, lo
tagliavano in mezzo e
cominciavano a tirare fuori tutta la roba, le
budelle le
mettevamo a bagno con un po' di aceto per
insaccare. Poi tiravano fuori
le costine, andavano in casa e spolpavano le
costine e con quella carne
macinavano. E le due mezzane, mesàn, le
chiamavano, erano là attaccate
su e le lasciavano fino a sera perché faceva
freddo. Dopo quando
avevano fatto su tutti i salami e avevano
pulito tutto allora le
mettevano sul tavolo... (Rosa, 1932, S.
Stefano Ticino)
“I vari tagli di carne [...] si trasformavano in salami
crudi, tra i
quali si distingueva il sansizzón
e la bogia:
quest'ultima non era
altro che la vescica della bestia riempita con le parti
migliori delle
carni ed era consumata solo in qualche festività
particolare” [M.
Comincini (a cura di), La terra e l'uomo, Società
Storica
Abbiatense, vol. 2, p. 112).
La bogia era un
salame grosso fatto di pasta di maiale, però era
tanto grosso che si
conservava tanto e allora lo facevamo col
budello grosso...
l'intestino, ne venivano fuori solo due. Uno lo
tenevamo da conto per
quando tagliavamo il frumento, per quel giorno
là. [….]
Facevamo il salsissón che era un salame grosso e
lungo, in una büseca
lunga. Quello lì lo tenevamo morbido e lo
mangiavamo anche a sant'Anna
[26 luglio] (Rosa, 1932, S. Stefano Ticino)
Come si intuisce, anche tra gli insaccati esiste una
“gerarchia” di
consumo: la bogia
e il salsissón
potevano durare anche molto a lungo,
così come la pancetta arrotolata da sola o con la coppa
(pancetta
coppata, che però non tutti facevano), mentre masapàn
e salamini
avevano un tempo di stagionatura più breve.
Un
po'
[di sangue] lo mettevano nella torta e un po'
facevano i
sanguinacci, quelli lì erano i primi da
mangiare. Prima si mangiavano i
sanguinacci, poi i salamini che erano freschi
[…] e poi i salamini li
appendevamo dove dormivamo, avevamo una camera
sola e allora salamini e
salam crud... c'era tutta la fila dei
sanguinacci, la fila dei salamini
che dovevano asciugare bene perché quando
erano asciutti erano come
cacciatorini, erano niente e mi parevano una
specialità! Li rubavo e
poi facevo il nodo [nella corda a cui erano
appesi] mio papà andava là
a contarli. (Eugenia, 1926, S. Stefano Ticino)
Quando
ammazzavamo
il maiale c'erano i luganeghit appesi in
stanza, e li rubavamo io e mio
fratello e poi ci nascondevamo a mangiarli [di
nascosto]... magari
avevamo fame, fino all'orario non preparavano
da mangiare, quelli lì
erano buoni... (Vittoria, 1917, Arluno)
Un ulteriore metodo di conservazione prevedeva
l'utilizzo di un altro derivato del maiale, il grasso:
Quando veniva tardi
li mettevamo giù con il grasso, lo strutto,
facevamo i basl [contenitori] e lo
tenevamo lì che si conservava. Mettevamo dentro
nell'ola tutti i
salamini che restavano buoni anche per l'estate.
Il grasso si usava per fare la minestra e tutto.
E il salami restavano morbidi. (Rosa, 1932, S.
Stefano Ticino)
Un discorso a parte vale per i cotechini, che, preparati
con la cotica,
rientrano nella categoria degli insaccati a brevissima
scadenza e
andavano mangiati prima che la stagione fredda fosse
conclusa.
Nell'immediato, giorni e settimane seguenti la
macellazione, si consumavano infatti le parti più
deperibili:
Per
esempio... facevamo bollire le ossa, non
quelle per la cassöla, c'era
attaccato il grasso, mangiavamo tutto! Poi
c'erano le orecchie, i
piedini, che non ci si può fare niente, allora
mettevamo sul fuoco un
caldàr e facevamo cuocere tutto, salati, e con
quel grasso lì che ci
accoppavamo per mangiarlo, ce lo
rubavamo! […] anche il codino...
tutta la roba che non si poteva insaccare, la
mangiavamo così a lesso:
orecchie, piedini, codino, il muso... quel
mese lì doveva andare tutto,
prima che venisse più caldo.(Eugenia, 1926, S.
Stefano Ticino)
Dalla necessità di consumo immediato nascevano quindi
piatti e
preparazioni particolari: ad esempio la rustìva, ovvero la carne
che
veniva “guadagnata” intorno alle costine cucinata con le
verze,
oppure il risotto
con le cotiche o con la pasta di maiale, e
infine la cassöla
e il carnelard.
Il
carnelard
si faceva con la verza, come la cassöla, è
dove è attaccato
il lardo, la parte più rosa che non è né
carne, né lardo... si faceva a
pezzettini come lo spezzatino e si cucinava
come la cassöla, ma più in
fretta perché cuoceva prima. (Eugenia, 1926,
S. Stefano Ticino)
Il
giorno che
ammazzavano il maiale facevamo la
rustìva... venivano fuori le
costine del maiale, era troppo
mangiarle con tutta quella carne lì
attaccata, allora ne toglievano un po'
e la rustìva restava la carne
del maiale con la verza. O che
facevamo il risotto, veniva il masulàr
[…] e allora preparava la pasta del
maiale per insaccare i salamini e
con un po' di quella pasta lì facevamo
il risotto che ne mangiavamo un
quintale per uno! (Eugenia, 1926, S.
Stefano Ticino)