Elemento
essenziale dell'alimentazione contadina, il pane si utilizzava in
cucina da solo o per accompagnare diversi generi di “companatico”,
dalla più quotidiana zuppa, alla fetta di salame o al formaggio.
Nonostante quasi tutte le famiglie (almeno quelle che possedevano un
po' di terra) coltivassero il frumento, il pane fatto in casa conteneva
una piccolissima percentuale di questo cereale, oppure non ne conteneva
affatto.
Il
frumento lo vendeva tutto la mia famiglia, per fare il pane usavamo
farina di granoturco, pochissima di frumento, perché costava di più.
(Eugenia, 1926, S. Stefano Ticino)
Le
famiglie consumavano in prevalenza pan giald, cioè pane di farina di
granoturco. A volte si usava anche il pane nero, di segale, oppure la
crusca, che però non lo faceva “stare insieme”.
A
Santo Stefano facevamo il pane bianco, a Ossona avevano invece il pane
nero, di segale, e non stava insieme, infatti andavo sempre dalla zia
Marietta a rubarlo. Perché lei faceva il pan micòn, quello di frumento
lo chiamavamo pan micòn. E invece il nostro non stava insieme... c'era
dentro la crusca, tutta crusca e la sua farina che c'era ma non era
setacciata. Invece a Santo Stefano facevamo il pane bianco, con la
farina bianca del granoturco e il frumento. (Rosa, 1932, S. Stefano
Ticino)
La
produzione del pane era competenza delle donne di casa, che, una volta
alla settimana, preparavano l'impasto con gli avanzi delle pagnotte
precedenti;
Mettevamo
a bagno, facevamo bollire l'acqua e poi buttavamo dentro la farina, la
mescolavamo e facevamo una specie di polenta, con la farina di
granoturco. Dopo un po' mettevamo dentro le briciole, gli avanzi della
pasta della settimana prima che erano forti, sapevano di brusc,
acidi, li mettevamo dentro, li facevamo ammorbidire e poi li
mettevamo dentro in quell'acqua e farina lì. Allora prendeva
anche lei quel brusc, e surtiva, come quando lievitano le torte. Ma era
ancora rustica, perché era tutta farina di granoturco; allora quando
era bella sollevata mettevamo dentro la farina di frumento, la
lasciavamo lì due ore e poi la portavamo al forno per fare il pane.
Magari non avanzavamo le briciole: “Madonna!” e allora andavamo da
qualche donna del cortile a chiedere, e ce lo davano, anche perché più
di una certa quantità non si possono mettere dentro. (Rosa, 1932, S.
Stefano Ticino)
Una volta preparato l'impasto, lo si lasciava riposare in un
contenitore, una marnéta, e si andava al forno comune a prendere la
cota, o la parola, cioè a “prenotarsi” per portarlo a cuocere
successivamente.
Al momento di andare al forno, la marnéta veniva caricata su una
carriola. Dalla marnéta la pasta del pane veniva estratta con una raspa
e poi poggiata sul bancone del forno ben divisa in pagnotte sulle quale
ogni donna faceva il suo “segno”.
Il
pane si faceva una volta alla settimana, quando non ne avevamo più...
ma era sempre una volta alla settimana, non c'era un giorno fisso.
Facevamo l'impasto, poi andavamo là [al forno] c'era la pala, lo
rovesciavamo su, gli davamo un colpo, io perché ero una bambina, mi
facevano fare la sparada, il segno nel pane [con la mano di traverso]
tanti facevano le quattro dita, tanti il pisigòn, che lo tiravano in
su... (Rosa, 1932, S. Stefano Ticino)
Quando si andava poi a ritirare le pagnotte, il fornaio le metteva nel
posto corrispondente a ciascuna delle donne che si erano recate al
forno; queste recuperavano la marnéta, che nel frattempo avevano
lasciato sotto il bancone, posizionavano al suo interno le pagnotte e
le mettevano un coperchio. La marnéta veniva portata di nuovo a casa e
lasciata in cucina, coperta con un sacco.
Oltre al pane quotidiano, esistevano preparazioni particolari, che non
si potevano gustare tutti i giorni; per esempio la brusavèla (o
brusèla) e la carsènsa, pagnotte farcite con la frutta di stagione -
mele, pere, fichi, uva sultanina, uva americana - acquistata o
conservata per l'occasione, e condite col grasso d'oca, oppure la piota
che, rispetto alle precedenti, aveva una minore quantità di impasto ma
più “ripieno”.
Si
mangiavano, quando li portavamo a casa, come adesso la merenda, nel
momento in cui si faceva, la mangiavamo tutta, un pezzo ciascuno,
perché era una cosa golosa. Un pezzo per uno, ci si accontentava, però
era cara, perché bisognava comprare tutte quelle cose lì, fichi, uva
eccetera... e non tutti la facevano, la faceva chi aveva qualche soldo
in più. (Rosa, 1932, S. Stefano Ticino)
Ma già solo la mica, il pane bianco, di frumento, rappresentava un lusso.
La
mica era tutta farina di frumento, di tipo 00 e poi adesso è setacciato
più di una volta. […] per noi la mica era come mangiare... una brioche
adesso! […] era una qualità migliore di quello che facevamo noi perché
era tutto frumento, invece quello che facevamo noi aveva anche il
granoturco dentro. (Rosa, 1932, S. Stefano Ticino)
Il pan meìn era invece preparato con la farina di miglio, che dava all'impasto un sapore dolciastro.
Il pane bianco poteva essere poi inzuppato nel latte, così si preparava
il michelacc, che veniva fatto bollire finché non si ritirava. Oppure
lo si lasciava cuocere nel brodo finché non diventava molle e lo si
dava ai malati o alle puerpere, il pan cott.
Mic e lacc... niente,
pane e latte, si metteva a bollire finché non era poco [si ritirava] e
lo mangiavamo. Lo facevamo col nostro pane. (Eugenia, 1926, S. Stefano
Ticino)
Mettevamo a bagno il pane, la mica, era la michetta che si comprava in
piazza, la chiamano ancora la mica! Mic e lacc, pane e latte, lo
facevamo tostare bene e poi lo mangiavamo come fosse... era buono!
Magari tanti avevano anche il burro e ne mettevano dentro un pochino.
(Rosa, 1932, S. Stefano Ticino)
Per il pan cott mettevamo a
cuocere il pan poss [raffermo], lo facevamo sobbollire un po' e poi lo
mangiavamo. (Vittoria, 1917, Arluno)
Quando faceva caldo ci si dissetava invece con una specie di zuppetta,
la mariéta fresca, fatta di pane, acqua, aceto e zucchero. In
alternativa il “condimento” poteva essere semplicemente messo sul pane
affettato.
D'estate
quando avevamo fame mangiavamo... non usavamo il vino, ma l'aceto,
pane, acqua e un po' di zucchero se c'era, in una tazzina, e la
chiamavamo marièta fresca. (Eugenia, 1926, S. Stefano Ticino)