Come
molti sanno, la coltivazione della vite era molto diffusa in tutta la
Lombardia e anche nella nostra zona fino alla metà '800, quando i
filari di viti circondavano e delimitavano, insieme alle rogge, i campi
coltivati.
Poi, alla fine del secolo, anche a causa della fillossera (insetto parassita), il patrimonio
viticolo venne in gran parte distrutto e, almeno in questa zona, che si
andò specializzando in altre produzioni, non si riprese più.
Una testimonianza di quel periodo è rimasta però nel termine vigna, che, ancora oggi, indica il campo coltivato.
Per quanto riguarda quindi il periodo preso in considerazione da questa
ricerca, ovvero quello che va dai primi anni del '900 fino al secondo
dopoguerra, la produzione di vino era molto diminuita, la qualità più
diffusa era il clintòn, di origine veneta, da cui il nome Clinto, usato
per indicare il vino che se ne ricavava.
Il Clinto era una qualità che resisteva qui da noi e ce l'avevano giù
tutti i paesani... a quel tempo là finché c'era il Clinto bevevano un
po' di vino, ma poi andavano al Circolo, magari il pomeriggio della
festa e bevevano un quarto [di vino migliore]... ma se i soldi non
c'erano... (Gianni, 1926, Robecco sul Naviglio)
A casa mia [non si faceva il vino] perché non eravamo agricoltori
grossi. Il vino lo chiamavano bruschétt […] perché era brusco. Avevamo
due qualità d'uva, l'ugascia e l'ughéta, l'ughéta era quella da
schiacciare, ma noi non la schiacciavamo, la mangiavamo che era ancora
rosa! (Eugenia, 1926, S. Stefano Ticino)
Anche se di qualità non certo eccelsa questo “bene” veniva però
conservato, dalle famiglie che lo producevano, da un anno all'altro e
bevuto con parsimonia.
L'uva si raccoglie a settembre, ottobre... poi viene lasciato almeno
cinquanta giorni che fa il deposito, dopo bisogna mondarlo, pulirlo e
quindi la damigiana si travasa in un'altra e si lascia dentro il fondo
[…] dopo almeno un'altra volta prima di imbottigliarlo bisogna
travasarlo […] si imbottiglia con la luna di Pasqua.
Quando era pulito lo mettevano nelle damigiane... noi non è che lo
travasavamo nelle bottiglie, stava nella damigiana e noi andavamo là
con una caldarina, una tòla da due o tre litri, e lo tiravamo fuori con
la canna, e la damigiana la lasciavamo lì. Ma era un male, perché
invece [se lo imbottigliavamo] perdeva un po' di acidità. Ma prima era
così, non si stava troppo a guardare.
Però quando era finita la damigiana, non si iniziava subito l'altra,
magari si stava una settimana senza, perché dopo non era abbastanza per
tutto l'anno […] e poi finché non era vuota, a mezzogiorno e alla sera
quando si mangiava [si beveva] e se veniva qualcuno si offriva.
(Gianni, 1926, Robecco sul Naviglio)