Approfondimento

La quercia ieri e oggi

Un po’ di storia...
Presso i Romani la quercia era il simbolo della sovranità: per questo motivo sulle insegne dei re di Roma figurava una piccola corona di foglie di questo albero. Con foglie di quercia venivano intrecciate anche corone civiche ed emblemi di merito, conferiti ai cittadini valorosi per sottolineare la regalità ed il loro valore guerriero (infatti nella lingua latina robur vuol dire sia forza che quercia). Sempre a Roma, con una ghirlanda di quercia era incoronato il soldato che in battaglia aveva salvato la vita ad un commilitone e con la medesima corona si adornavano gli uomini veri (i viri) che si erano distinti per particolari virtù civili. La mitologia romana narra che le querce possono ospitare due ninfe, considerate le anime degli alberi, le Driadi e le Amadriadi: le prime avevano la possibilità di abbandonare l’albero prima dell’abbattimento mentre le seconde erano congiunte ad esso per sempre. La quercia appartiene al gruppo degli alberi cosmici, venerati come creature sacre nelle quali poteva realizzarsi l’incontro tra l’uomo e Dio. Con il loro corpo fatto di radici, tronco e chioma costituivano inoltre un’efficace allegoria dei tre mondi, comune a molte religioni: quello degli inferi, dei viventi e della divinità. Tale pianta nella mitologia greca e romana era considerata l’albero sacro a Giove (o Zeus): infatti il più antico oracolo greco, situato a Dodona (nell’Epiro) e dedicato a Zeus, era proprio una quercia, mentre a Roma il colle Campidoglio, consacrato a Giove, era ricoperto di
querce. Anche per i Galli che abitavano la Pianura Padana (Gallia Cisalpina) prima dell’arrivo dei romani, la quercia, molto diffusa nelle sterminate foreste, rappresentava una pianta sacra nella quale dimoravano gli dei del cielo: e per questo le navi, le porte e gli scudi dovevano essere costruiti in legno di quercia. I Druidi, sacerdoti celti ma anche poeti, veggenti, giudici, storiografi, ritenevano che nulla fosse più sacro della quercia sulla quale germogliava il vischio, le cui bacche erano segno di buoni raccolti e di prosperità. Quando poi i Romani conquistarono la Gallia Cisalpina iniziarono un’intensa attività di disboscamento e bonifica dei terreni per far posto alle coltivazioni; ma persino i soldati di Cesare avevano paura di tagliare le secolari querce: tuttavia la scure ebbe la meglio. Furono risparmiate solo le foreste su terreni paludosi o non utilizzabili per l’agricoltura perché poco fertili. Tra questi, ad esempio, i boschi che ancora fino alla metà del XIX secolo ricoprivano l’attuale Parco del Roccolo, tra i comuni di Canegrate, Busto Garolfo, Parabiago, Nerviano, Arluno e Casorezzo.

…Oggi
Il legno della quercia oggi è impiegato per la costruzione di navi e travi per le case, mobili da giardino e attrezzi per giochi all’aperto. Esso resiste bene anche sott’acqua e per questo motivo le palafitte sulle quali sono costruite le case di Venezia sono state realizzate in gran parte con questo legno. Le parti dell’albero non utilizzabili come materiale da opera forniscono un’ottima legna da ardere. Il frutto della quercia, la ghianda, è raccolto per ingrassare i maiali e, di rado, anche i conigli e le oche. La ghianda è commestibile anche per l’uomo: diverse persone ricordano
che durante l’ultima guerra le ghiande macinate e tostate erano utilizzate per produrre un surrogato del caffè. Nei pochi boschi ancora presenti nell’Alto Milanese la quercia è oggi molto rara, numerosi sono invece gli alberi di origine esotica come il prugnolo tardivo e la robinia. Fanno eccezione i boschi della riserva naturale WWF di Vanzago e i boschi di Arluno, all’interno del Parco del Roccolo, ultimi lembi delle foreste primigenie.


Un territorio in trasformazione
In base alle ricerche topografiche compiute, possiamo ipotizzare che parte del territorio a Ovest di Milano in età imperiale subì profonde trasformazioni. Vennero infatti disboscate molte foreste e bonificate aree limitrofe al fiume Olona per far
spazio ad aree agricole che successivamente vennero divise a fini fiscali. I Romani infatti, suddivisero il territorio in grandi quadrati di 710,4 metri di lato detti centurie perché a loro volta suddivisi in 100 campi, ciascuno di 71 metri di lato. I segni di questa divisione sono ancora oggi evidenti e caratterizzano il disegno del paesaggio e talora anche quello dei centri abitati. E’ probabile poi che vaste zone – ad esempio quelle tra Arluno, Casorezzo, Busto Garolfo e Parabiago – rimasero incolte a causa della bassa fertilità dei suoli, per la scarsità dei corsi d’acqua o per la presenza di paludi, soprattutto in alcune aree prossime al fiume Olona. I primi insediamenti nella zona – concentrati lungo il corso dell’Olona, ma sempre in aree non inondabili – mantennero la struttura puntiforme che caratterizzava i villaggi di età celtica, precedenti quindi alla conquista romana. Si trattava dunque di comunità medio-piccole, ciascuna con la sua dotazione di boschi e pascoli. Altri insediamenti, di probabile origine romana, sorsero all’incrocio degli assi centuriali: tra questi sembra possibile riconoscere anche l’antica Parabiago – situata in una zona non soggetta ad allagamenti a circa due centurie (1.400 m) dalla strada del Sempione, che ricalca la via romana che collegava Milano ad Angera – e Villastanza, situata a circa quattro centurie (2.800 m) dalla stessa strada.




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