Il barone rampante

Cosimo era sull’elce. I rami si sbracciavano, alti ponti sopra la terra. Tirava un lieve vento; c’era sole. Il sole era tra le foglie, e noi per vedere Cosimo dovevamo farci schermo con la mano. Cosimo guardava il mondo dall’albero: ogni cosa, vista di lassù, era diversa, e questo era già un divertimento. Il viale aveva tutt’altra prospettiva, e le aiole, le ortensie, le camelie, il tavolino di ferro per prendere il caffè in giardino. Più in là le chiome degli alberi si sfittivano e l’ortaglia digradava in piccoli campi a scala, sostenuti da muri di pietre; il dosso era scuro di oliveti, e, dietro, l’abitato d’Ombrosa sporgeva i suoi tetti di mattone sbiadito e ardesia, e ne spuntavano pennoni di bastimenti, là dove sotto c’era il porto. In fondo si stendeva il mare, alto d’orizzonte, ed un lento veliero vi passava.

Io non so se sia vero quello che si legge nei libri, che in antichi tempi una scimmia che fosse partita da Roma saltando da un albero all’altro poteva arrivare in Spagna senza mai toccare terra. Ai tempi miei di luoghi così fitti d’alberi c’era solo il golfo d’Ombrosa da un capo all’altro e la sua valle fin sulle creste dei monti; e per questo i nostri posti erano nominati dappertutto.

Ora, già non si riconoscono più queste contrade. S’è cominciato quando vennero i Francesi, a tagliar boschi come fossero prati che si falciano tutti gli anni e poi ricrescono. Non sono ricresciuti. Pareva una cosa della guerra, di Napoleone, di quei tempi: invece non si smise più. I dossi sono nudi che a guardarli, noi che li conoscevamo da prima, fa impressione.

Italo Calvino, Il barone rampante, Einaudi, Torino, 1957, Cap. II – IV